Don Jackson e la Terapia Interazionale – di Giulio De Santis -Psicologo Milano-Bologna-San Benedetto del Tronto

Che influenza ha avuto Don Jackson sulla terapia familiare?

Che ruolo ha avuto Watts nella costruzione del motore a vapore?

L’ha inventato. Altri hanno raffinato il motore a vapore

Rendendolo un macchinario migliore e più efficiente.

Direi che lo stesso vale per Don e la terapia familiare:

Don Jackson ha fondato una disciplina.

Richard Fisch, M.D.

Jackson studiò medicina a Stanford, laureandosi all’inizio del 1944. Dopo aver concluso il tirocinio passò due anni nell’esercito americano specializzandosi in neurologia. Successivamente, dall’agosto del 1947 all’aprile del 1951, Jackson studiò presso il Chestnut Lodge nel Maryland e la Washington School of Psychiatry, due dei più prestigiosi istituti analitici allora esistenti, sotto la guida di Harry Stuck Sullivan. Sullivan propose una definizione alternativa di psichiatria come «studio del processo che coinvolge o si sviluppa tra le persone…il campo delle relazioni interpersonali, ovvero il campo nel quale tali relazioni, in ogni possibile circostanza, esistono…la personalità non è isolabile dal complesso delle relazioni interpersonali in cui la persona vive ed agisce» (Sullivan, 1945). Jackson abbracciò pienamente le implicazioni della Teoria Interpersonale di Sullivan; quest’ultima influenzò talmente tanto profondamente l’impostazione del suo lavoro che egli stesso fu definito “sullivaniano”. Quando però egli tornò nel 1951 a Palo Alto per avviare la sua attività clinica da libero professionista, le differenze con Sullivan divennero evidenti. La principale differenza tra Sullivan e Jackson è che il primo lavorava con individui malati isolati dalle proprie famiglie, applicava la sua teoria andando ad indagare in che modo le esperienze vissute nel passato limitassero i suoi pazienti; il secondo ampliò la teoria di Sullivan concentrandosi come dato principale sulle relazioni affettive tra gli individui e gli altri nel presente.

Il cambiamento essenziale nel concetto di causalità (ovvero il passaggio dal privilegiare le cause passate del comportamento al concentrarsi principalmente sulle relazioni tra colui che presenta il sintomo e le persone che lo circondano nel presente) avvenne, in parte, per caso. Palo Alto è una piccola città universitaria e Jackson non poteva evitare di incontrare alcuni dei parenti dei propri pazienti. Verso la metà del 1951, una paziente di Jackson, una giovane psicotica, stava facendo progressi e Jackson chiese alla madre della ragazza di non accompagnarla fino allo studio in occasione del successivo appuntamento. Quando arrivò il giorno di quella seduta, però, Jackson vide che la madre era accanto alla ragazza nella sala d’attesa. Il rifiuto della donna di seguire il suo suggerimento lo irritò e Jackson decise di invitare la madre ad unirsi a loro in ciò che divenne la prima seduta familiare mai raccontata.

I risultati furono interessanti e Jackson iniziò a sperimentare la teoria familiare: «Cominciai ad interessarmi alla terapia familiare quando mi spostai da Chestnut Lodge a Palo Alto, che è una piccola cittadina universitaria. Non potevo evitare di incontrare i parenti e questo produceva una serie di risultati sorprendenti e non sempre gradevoli. Iniziai ad interessarmi alla questione dell’omeostasi familiare, che sembrava contraddistinguere le famiglie nelle quali un membro schizofrenico era in grado di vivere in casa. Se quel membro iniziava una psicoterapia e ne traeva beneficio, ogni sua mossa produceva solitamente vari squilibri nella famiglia. In ogni caso, per motivi pratici, iniziai a vedere i genitori dei pazienti e poi i genitori e i pazienti insieme» (Jackson, 1962).

Jackson aveva appena iniziato a delineare una teoria interazionale del “qui ed ora” e un approccio familiare combinato alla terapia quando si verificò un’altra svolta fortuita che avrebbe avuto conseguenze profonde sul futuro settore della terapia breve e familiare: Don Jackson incontrò Gregory Bateson.

Negli ultimi anni sessanta, poco prima della sua morte nel 1968 avvenuta all’età di quarantotto anni, Don Jackson fu stimato come uno dei migliori dieci psichiatri esistenti in America. Viene spesso e da molti ricordato per essere stato un brillante terapeuta ed insegnante, creatore delle innovative teorie sull’omeostasi familiare, sulle leggi che regolano lo sviluppo di relazioni familiari, quid pro quo relazionali e, con Gregory Bateson, John Weakland e Jay Haley, della teoria del doppio legame.

I contributi teorici e clinici di Jackson alla comprensione del comportamento umano sono fenomenali per portata e lungimiranza. Molti esperti nel campo della terapia familiare e breve riconoscono Jackson come il principale fondatore della terapia interazionale e familiare congiunta.

La terapia interazionale pone l’enfasi su cosa “traspare” nel presente tra le persone, considerato il dato primariamente rilevante per la comprensione del comportamento umano. Il focus attentivo si identifica nei contesti e nelle relazioni. Non viene preso in considerazione ciò che è il passato della persona, la conformazione genetica, biochimica e la descrizione del comportamento. La terapia familiare congiunta, evolutasi in Italia grazie a Mara Selvini Palazzoli e la scuola di terapia sistemico-relazionale che troveremo più avanti in questa sede, è un termine coniato da Jackson per caratterizzare una terapia nella quale due o più persone che sono di importanza vitale l’uno per l’altro, sono visti simultaneamente (congiuntamente) nelle sedute terapeutiche. Nella sua poco più che ventennale carriera (1944-1968) Jackson fu uno tra i più proliferi autori del suo tempo, con alle spalle centoventicinque pubblicazioni tra articoli e capitoli di libri e sette libri, inclusi due testi classici ancora in stampa (“Pragmatica della comunicazione umana” , insieme a Paul Watzlawick e Janet Bevin Bavelas e “miraggi di matrimonio” (con William Lederer), co-fondatore, insieme a Nathan Ackerman e Jay Haley, della rivista “Family Process”. Partecipò alla fondazione della casa produttrice “Science & Behaviour Books” e, al fine di informare la più ampia comunità medica sulla teoria interazionale, ha contribuito alla fondazione della rivista medica Medical Opinion and Review e ne è stato editore. Jackson ha vinto tutti i premi raggiungibili nel campo della psichiatria, incluso il premio Frieda Fromm-Reichmann per il suo contributo agli studi sulla schizofrenia, il primo premio Edward R. Strecker per i contributi al trattamento dei pazienti ospedalizzati, nel 1967 il Salmon Lecture da parte dell’American Psychiatric Association e il New York Accademy of Medicine. Facendo partire i suoi lavori dalla posizione della cibernetica di secondo ordine, Jackson fu il primo clinico a mantenere senza compromessi una tra le più alte posizioni cibernetico-costruttiviste tra le attuali pratiche terapeutiche. L’essenza del suo modello risiede nel fatto che il cliente è visto come un individuo con reali problemi supportati dalla famiglia stessa nel presente attuale. Quella che segue è una sintesi di alcuni degli assunti della teoria interazionale:

Sebbene ci siano possibilità di fattori storici, genetici, o ereditari, questi fattori non sono osservabili indipendentemente eccetto nei casi di gravi e particolari disordini mentali. Il focus della terapia, quindi, è centrato sull’osservazione del comportamento nel presente tra i membri presenti nel contesto delle relazioni primarie del cliente.

Il più influente contesto di apprendimento è la famiglia, quindi sintomi, difese, struttura del carattere e personalità possono essere visti come termini descrittivi delle interazioni tipiche degli individui che si formano in riferimento ad un particolare contesto interpersonale.

Per Jackson essere membro di una famiglia include genitori, bambini, altri parenti significativi come i nonni, gli zii e le altre persone che, pur non essendo parenti, sono significativi e creano dipendenza.

Tutto il comportamento (incluso il comportamento patologico) è comunicazione e, quindi, inseparabile dal suo contesto.

Il concetto di doppio legame come fenomeno multi-direzionale osservabile in alcuni tipi di comunicazione umana è fondamentale nella teoria interazionale. Gli elementi essenziali del doppio legame sono:

  1. Due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa nella quale si riscontra un alto grado di valore di sopravvivenza per le persone coinvolte. I membri della famiglia sono coinvolti nello scambio di messaggi incongruenti. Ad un livello (verbale) il messaggio è “comportati in una maniera e se non lo fai io non ti amerò”. Allo stesso tempo, ad un livello non verbale, il messaggio è “comportati nella maniera opposta e se non lo fai io non ti amerò”.
  1. Il ricevente non può commentare l’incongruenza (metacomunicazione) e non può abbandonare il campo.
  1. Il processo è continuo e pervasivo e permea la comunicazione tra i membri.

Una volta stabilito questo come prevalente stile di comunicazione all’interno della famiglia, sono presenti tutti gli elementi per mantenere gli effetti comportamentali del doppio legame.

Ogni credenza condivisa tra i membri di un gruppo costituisce la realtà che essi esperiscono. Il terapeuta, come osservatore partecipante, partecipa attivamente nella creazione della descrizione del comportamento imposto sulla famiglia.

I partecipanti alle relazioni tentano continuamente di definire la natura della relazione. Per l’assunto di questa teoria, la relazione è definita come avente due caratteristiche primarie:

  1. E’ importante per le persone coinvolte;
  1. Il conflitto va avanti da tempo.

Quando sono presenti questi due fattori, non può non manifestarsi il bisogno di definire la natura delle relazioni.

In tutte le comunicazioni, i partecipanti ad essa manifestano l’un l’altro le definizioni della loro relazione nello sforzo di determinare la natura di essa. Ognuno, a turno, si presenta con la sua definizione della relazione, che può confermare, smentire o modificare nel faccia a faccia.

Col passar del tempo, in questo processo, sicuramente i comportamenti sono mantenuti come accettabili mentre altri vengono esclusi in maniera evidente, emergono i pattern ridondanti esistenti tra i membri. Queste ridondanze possono venire metaforicamente apprese come le regole che governano le relazioni all’interno di un sistema familiare dato. Questi pattern che connettono i membri della famiglia fra di loro sono il focus della terapia.

Più rigide e restrittive sono le regole delle relazioni, meno la famiglia sarà disposta al cambiamento e molto probabilmente uno o più membri saranno identificati come “sintomatici” sia da loro stessi, sia dagli altri membri della famiglia, sia dai membri esterni della comunità estesa.

Il cosiddetto comportamento sintomatico emerge in famiglia quando le regole delle relazioni sono così ristrette che i membri della famiglia non sono capaci di adattarsi ai cambiamenti naturali dovuti all’evoluzione delle relazioni familiari nel tempo e/o quando i membri della famiglia non sono capaci di arrivare ad un consenso a proposito della natura del cambiamento dei loro rapporti.

Il desiderio di essere capaci di predire la realtà, l’illusione che l’uno possa controllare il comportamento dell’altro, la paura del cambiamento e il desiderio di mantenere un po’ di senso di stabilità sono i tentativi più usuali che vengono attuati per far fronte alla natura della relazione.

Quando i tentativi sono attuati per arrivare ad un punto di convalidazione consensuale a proposito della natura delle relazioni ci si viene a trovare, all’interno del rapporto coniugale, in una situazione patologica nella quale ciascuno dei partner fa uso di particolari metodi di coercizione per forzare l’altro ad accettare la propria definizione della relazione. Un altro esempio potrebbe essere la situazione di triangolo che si viene a creare tra un coniuge in una famiglia in coalizione con l’altro coniuge. Altre patologie comunemente osservate includono variazioni sul tema della punizione di tipo overt e covert e violenze da parte di un partner in risposta agli sforzi dell’altro coniuge di definire la relazione nel suo modo.

Questi cosiddetti sintomi o patologie, sono esempi di come gli individui, intrappolati nella illusione di poter controllare l’altro, tentano di definire la natura del loro rapporto.

Gli archivi di Jackson al Mental Research Institute contengono migliaia di documenti, registrazioni video e audio. Uno dei file contiene brani di un libro sul quale Jackson lavorò senza però pubblicarlo che, a mio parere, può risultare utile per conoscere e avvicinarsi all’originale approccio di Jackson alla costruzione della teoria. Quella che segue è una sintesi dei diciassette principi assunti e postulati che Jackson riteneva fondamentali per la comprensione delle interazioni umane.

  1. Le persone cercano sempre di definire la natura della propria relazione con gli altri, quando interagiscono con loro. (In relazione all’idea della ricerca o del mantenimento della propria identità? Questa potrebbe essere considerata la forza motrice della teoria?)
  1. (integrazione del n. 1) Finchè una persona è viva e in interazione, non può non cercare di definire la natura della sua relazione. Non c’è possibilità di “stasi”.
  1. A volte questa tendenza (a definire la natura delle relazioni) è più evidente di altre. (Ciò lascia aperta una questione: il principio opera a volte più fortemente di altre?)
  1. Le dimensioni della “natura delle relazioni” sono esaustivamente definibili come a) simmetriche e b) complementari (offrire o chiedere). Ogni interazione, quindi, può essere vista in questi termini.
  1. I “tratti caratteriali”, i “sintomi” sono i modi tipici attraverso cui una persona in un’interazione tenta di definire la natura della relazione.
  1. L’interazione tra due o più persone può essere vista come un sistema che in ogni momento ha un qualche punto centrale di equilibrio. (Il punto centrale è probabilmente inferito, concettuale, piuttosto che fattuale.) Il sistema è mantenuto da una serie di regolatori (meccanismi omeostatici).
  1. C’è sempre una tendenza verso il mantenimento di uno status quo. (Si tratta di un’altra forza motrice?).
  1. Contemporaneamente è sempre presente anche una tendenza al cambiamento nel sistema (ciò che consegue, almeno in parte, ai punti 1 e 6). Il sistema, dunque, non è mai concettualmente statico.
  1. La natura del sistema (incluso il suo punto di equilibrio e i regolatori) può essere modificata dall’introduzione di nuovi parametri. (Possono, questi ultimi, essere concepiti come regole?).
  1. Il “sistema” è astratto: si manifesta o viene definito dal ripetersi di sequenze di schemi specifici e di modalità per tentare di definire la natura della relazione.
  1. Anche i “meccanismi omeostatici” sono astrazioni. Si riveleranno indirettamente tramite l’osservazione di schemi ripetitivi, ecc.
  1. Tutti i messaggi hanno sia un aspetto di notizia sia un aspetto di comando. (Notizia relativa allo stato di chi comunica? Il comando si riferisce al tentativo di definire la natura della relazione? Questi aspetti richiedono un approfondimento).
  1. Tutti i messaggi sono modificati da squalifiche o da affermazioni. (Il punto discriminante per i meta-messaggi al fine di prevenire il problema della regressione infinita necessita chiarificazioni).
  1. Un dato messaggio è arbitrariamente visto in relazione al messaggio immediatamente precedente. Una tale semplificazione è necessaria per evitare il compito altrimenti infinitamente complesso di vedere ogni messaggio in relazione a tutti i messaggi precedenti. La spiegazione di questo particolare punto deve essere empirica.
  1. La conoscenza della storia precedente di un sistema non è necessaria per studiarne gli attuali schemi di interazione. Nei termini di questa teoria, è sufficiente un approccio trans-settoriale.
  1. Particolari schemi di un sistema (ad esempio particolari tipologie di equilibrio) tenderanno ad essere associati a particolari tipologie di comportamento individuale (inclusi tratti di carattere, sintomi, ecc.). Questo assunto non esclude a) possibili fattori di confusione, o b) l’effetto di evento/i esterno/i. (atti di Dio).
  1. Ogni affermazione può essere sempre preceduta da “Ho il diritto di dire questo e quest’altro in questa relazione” (Jackson, 1962, materiale non pubblicato).

Se il dottor Don D. Jackson fosse ancora vivo sarebbe un personaggio noto ma controverso. Questa era la situazione anche quando svolgeva il suo lavoro: era un purista dei sistemi ed è difficile che i puristi di ogni tipo, almeno nel campo degli studi sulla famiglia, vadano di moda. In questa epoca di compromessi, dove “integrazione” è la parola più in voga nel settore della terapia familiare e le sovvenzioni delle case farmaceutiche non sono riuscite ad eliminare le terapie esclusivamente verbali dai programmi di formazione psichiatrici, è difficile trovare sostenitori di approcci puramente relazionali (Wendel, 2004, pp. 36-43).

Molte delle premesse di questa sintesi sono apparse in forma più rifinita in pubblicazioni successive ma, l’epicentro inequivocabilmente interazionale del suo pensiero è già chiaramente evidente.

L’approccio di Jackson era centrato sul processo familiare: «La nostra inclinazione a una visione individuale delle cose rende difficile percepirci come parte di un sistema, la natura del quale arriviamo appena a comprendere. Eppure sono convinto che questo tipo di atteggiamento comporti la riduzione di insiemi altamente complessi di persone e contesti in termini che si dimostrano inappropriati se applicati ad un individuo» (Jackson, 1963).

Jackson ha descritto la paura della sfida e l’illusione della stabilità che caratterizza molti conflitti relazionali come «un tiro alla fune» (Jackson, 1967), evitando così le ipersemplificazioni e il riduzionismo di molte teorie del comportamento umano che cercano di spiegare l’individuo isolandolo artificialmente dal contesto del quale è parte.

Il più durevole contributo di Jackson alla comprensione della natura degli esseri umani è stata l’espansione della definizione di comportamento al di là dell’osservazione dell’individuo fino allo sviluppo della consapevolezza del comportamento come manifestazione di relazioni nel senso più vasto. Questa irriducibile attenzione al contesto rappresenta un salto rivoluzionario, un passo evolutivo potenzialmente significativo «quando l’organismo smette gradualmente di rispondere automaticamente ai segnali emotivi dell’altro e diviene capace di riconoscere che i segnali dell’altro individuo e i propri sono solo segnali» (Bateson, 1972).

Paul Watzlawick e Janet Beavin-Bavelas affermano che l’innovativo libro “Pragmatica della comunicazione umana” è derivato dal loro sforzo di comprendere e descrivere le incredibili abilità teoriche e cliniche di Jackson. Dedicarono mesi ad osservare le sedute di Jackson e a porgli domande nel tentativo di comprendere il suo incredibile acume clinico. Jackson, esasperato, decise di buttare giù le idee base e di invitarli a scrivere il libro che sarebbe divenuto la pietra angolare della teoria interazionale del comportamento umano.

Una delle idee base era che un fenomeno rimane inspiegabile finchè la gamma delle osservazioni non è ampia abbastanza da includere il contesto nel quale quel fenomeno si verifica. Omettendo di considerare la relazione tra l’evento e la matrice nel quale ha luogo, tra un organismo e il suo ambiente, l’osservatore si troverà di fronte a qualcosa di “misterioso” oppure finirà per attribuire all’oggetto di studio proprietà che quello potrebbe non possedere. In confronto alla consapevolezza che di questo fatto hanno le scienze biologiche, le scienze comportamentali sembrano ancora basarsi ampiamente su una visione monadica dell’individuo e sull’onorato metodo dell’isolamento delle variabili (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971, pp. 108-128).

Dalla collaborazione di Jackson con il noto autore, nonché amico, William Ledere, emerge palesemente l’intento, da parte di entrambi, di approfondire la comprensione relazionale del comportamento umano al di là delle scienze della salute e di diffondere tali idee anche ai non professionisti del settore.

Nel primo libro di auto aiuto per la coppia a impostazione sistemica, Mirages of marriage (1968), Ledere e Jackson hanno scritto: «Il concetto di sistemi aiuta a spiegare molto di ciò che prima era misterioso nel comportamento derivante dall’interazione tra due o più esseri umani. Sappiamo che la famiglia è un’unità in cui tutti gli individui hanno un ruolo importante – che a loro piaccia o meno e che lo sappiano o meno. La famiglia è una rete di comunicazioni interattive in cui ogni membro, dal neonato alla nonna, influenza la natura dell’intero sistema e, contemporaneamente, ne è influenzato. Per esempio, se qualcuno nella famiglia si sente malato, un altro membro potrebbe diventare più efficiente di quanto sia abitualmente. Il (la famiglia come) sistema tende, naturalmente, a mantenersi in equilibrio. Un’azione insolita da parte di uno dei membri provocherà invariabilmente una reazione compensatoria da parte di un altro membro. Se la madre odia le gite domenicali ma nasconde questo sentimento al marito, il messaggio viene comunque trasmesso attraverso la rete familiare di comunicazioni e potrebbe essere il bimbo di quattro anni, a soffrire il “mal d’auto” e a “rovinare la gita domenicale.” » (Nardone G., 1993).

Lo spostamento dell’attenzione dai processi intrapsichici dell’individuo alla relazione tra i membri del sistema relazionale dell’individuo è individuabile nel lavoro di molti dei più eminenti clinici-teorici di oggi (Keeney, Tomm, Penn, Palazzoli, Cecchin, Lane, Ray, Boscolo) e ciò è anche usato in terapia per liberare le persone dal doppio legame. Avendo avuto la fortuna di svolgere il Brief Therapy Intensive a Palo Alto nel luglio 2005, mi sembra opportuno ricordare cosa Richard Fisch, in una delle sue usuali “non risposte” alle nostre domande, ha raccontato a proposito. Egli raccontò come una volta, avendo a che fare con una coppia intrappolata in un doppio legame che non riusciva a smettere di litigare neanche in seduta, decise di fare la verticale sul tavolo ogni qualvolta loro iniziassero a discutere animatamente. Ovviamente il risultato era lo scoppio di una grassa risata da parte di tutti; ebbene, dopo la quarta seduta la coppia telefonò al Dott. Fisch dicendogli che non avrebbero avuto più bisogno di lui in quanto ogni inizio di litigio si risolveva in una risata grazie al ricordo della buffa situazione vissuta ogni volta in seduta. Grazie a questa “registrazione buffa”, ora era possibile, per la coppia, spostare il focus dell’attenzione su qualcos’altro che non fosse il voler cambiare l’altro o il dimostrare di avere ragione e ciò avveniva anche in assenza del terapeuta e in maniera automatica (Fisch, 2005). Il ricordo della buffa situazione era lo strumento che permetteva loro di distogliere l’attenzione dal litigio, iniziare un altro approccio alla discussione e così instaurare una reazione a catena che avrebbe portato ad un cambiamento del sistema. Da qui si può notare l’influenza di una tra i più stravaganti terapeuti di tutti i tempi: Milton Erickson. Erickson, che troveremo più avanti in questa trattazione, ha dato una impronta decisiva all’approccio dell’M.R.I. e ha influenzato soprattutto due tra i componenti del gruppo: Jay Haley e John Weakland, che elaboreranno poi il suo metodo facendolo sviluppare in quello che poi sarà l’approccio strategico. Nella sua prefazione al famoso libro “Change”, scritto in memoria di Don Jackson da Watzlawick, Weakland e Fisch, Erickson sottolinea come una volta effettuato un piccolo cambiamento si rendano necessari altri cambiamenti di minor importanza il cui effetto a catena provocherà altri cambiamenti più importanti a seconda del potenziale del paziente. E’ di vitale importanza per capire il proprio comportamento e quello degli altri stabilire se si tratta di cambiamenti transitori, oppure di cambiamenti stabili, o di fenomeni che possono ancora evolversi dando luogo ad ulteriori cambiamenti…sono correnti che necessitano di una spinta illogica, repentina, se si vuol farle sfociare in un risultato concreto (Erickson, 1974).

Il cambiamento, come da manuale, avviene dall’esterno, ciò che viene chiamato cambiamento2, il cambiamento di un cambiamento, un cambiamento attuato sul cambiamento che si tenta di attuare con le tentate (errate) soluzioni (cambiamento1), un cambiamento che avviene ad uno stato completamente diverso e che è ben spiegato nell’opera precedentemente citata.

Il lavoro pionieristico svolto negli anni cinquanta e sessanta da Jackson e dai suoi colleghi, prima nell’ambito dei progetti di ricerca di Bateson e poi al Mental Research Institute, permea la maggioranza degli attuali approcci sistemici alla terapia:

  • il principio non-patologico, non normativo ed interazionale avviato da Jackson a partire dall’ancor più fondamentale premessa sottostante al Modello della Terapia Breve sviluppata dopo la morte di Jackson al Mental Research Institute
  • il lavoro strategico di Jay Haley e dei suoi colleghi
  • il modello strutturale sviluppato da Salvador Minuchin e dai suoi colleghi
  • il lavoro della scuola di Milano sia prima che dopo la scissione in due gruppi
  • la terapia breve centrata sulla soluzione di De Shazer e dei suoi colleghi al Brief Therapy Center di Milwaukee
  • il lavoro di Keeney e dei suoi colleghi
  • il lavoro di Andersen
  • gli orientamenti narrativi “post moderni” di Anderson & Goolishian, Hoffman, e Michael White
  • la maggior parte degli approcci a orientamento sistemico

Il modello cibernetico e le nozioni di base circa i sistemi, il costruzionismo sociale, l’attenersi alla pragmatica (chi fa cosa, quando e a chi nel presente), l’accettazione del sintomo, parlare il linguaggio del cliente, utilizzare domande circolari, prescrivere comportamenti su un livello di astrazione per raggiungere l’organizzazione del sistema su un altro livello (linguaggio paradossale), tutti questi sono solo una parte delle modalità attraverso cui Jackson ha influenzato l’attuale lavoro di gran parte dei modelli di terapia familiare e breve. Dalla morte di Jackson ad oggi, il lavoro dei suoi colleghi all’M.R.I. ha continuato a influenzare l’attività dei professionisti della terapia breve, familiare e strategica orientati in senso sistemico.

Lo spostamento del fulcro dell’attenzione, avviato da Jackson e dai suoi colleghi, dall’individuo alla relazione e dalla “realtà” della patologia alla costruzione di realtà ecologicamente rispettose, ha implicazioni che travalicano il settore della terapia breve e familiare. Queste idee hanno ramificazioni di proporzioni globali che spaziano dall’ecologia alla politica. Queste discipline, impegnate in una visione del mondo radicata nella cibernetica e attente alle implicazioni della svolta paradigmatica rappresentata da Jackson potrebbero forse indicare al genere umano la via per superare la mentalità della causalità lineare oggi così prevalente soprattutto nel mondo occidentale.

Dr. Giulio De Santis

PSICOLOGO – PSICOTERAPEUTA

Specialista in

PSICOTERAPIA BREVE STRATEGICA

Affiliato al CTS di Arezzo diretto dal Prof. Giorgio Nardone

Coordinatore CTS – Bologna

Riceve a: Milano, Bologna, San Benedetto del Tronto

Tel.: 3333763710 e-mail: desantisgiulio@gmail.com

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